lunedì, dicembre 11, 2006

Un post che inizia di qua finisce di la e forse in mezzo non dice proprio niente

Quando cominciai a lavorare in quell'albergo non ero altro che una bimba di nemmeno 17 anni. Iniziai con paura questa esperienza passando ore davanti allo specchio dandomi arie da donna in carriera con il mio tailleur blu preso in prestito e le mie scarpe col tacco. Mi sembrava quasi di giocare a fare la grande; dalla stazione all'albergo guardando dritta davanti a me e camminando compita.

Dentro però era l'inferno. Passavo la maggiorparte del tempo pregando che nessuno chiamasse al telefono (invano) e cercando di stare più vicino possibile ai pochi dipendenti dotati di pietà. Molti mi usavano come salvagente buttandomi avanti quando qualcuno veniva a lamentarsi di qualcosa, dovevo ormai fare mia l'arte di inventarmi scuse. E di scuse da fare ce ne erano sempre, ogni giorno. A quanto pare nulla di quell'hotel valeva le 200mila lire a notte della tariffa. Ne le stanze, ne il ristorante, ne l'inutilizzabile piscina. E io mi trovavo sempre li, davanti, a balbettare scuse alle quali nessuno di noi credeva. Quando andava peggio a balbettarle ad indiani o giapponesi che chiedevano qualsiasi cosa nel loro incomprensibile inglese; quando mi giravo a chiedere aiuto non c'era nessuno... volatilizzati, lasciata quasi come un agnellino sacrificale.

Che se mi fosse successo ora, sarebbe stata tutta un'altra cosa, non mi sarei mai lasciata manomettere così, avrei reagito, avrei cercato un dialogo, cavolo neanche mi pagavano cosa sarebbe successo poi di terribile? E invece mi ritrovavo in bagno a piangere come una stupida con la mia sigaretta in bocca passando 10 minuti a cercare di calmare gli occhi rossi, o passavo in fretta in mensa con il mio vassoio mentre metà della popolazione maschile mi osservava il culo e mi faceva i complimenti per come rispondevo al telefono con la mia “voce sensuale”.

Un giorno mi trovavo in stazione aspettando il treno del ritorno; era luglio ed ero costretta ad indossare giacca camicia e collant e stavo letteralmente per sciogliermi.

In fianco a me si avvicina questa donna uscita senz'altro da un libro; era una donna giapponese sulla sessantina, indossava un kimono rosa e aveva un ombrello per ripararsi dal sole.

Mi chiede qualche informazione sul treno in un inglese stentato e poi si avvicina a me e mi ripara con il suo ombrello.

Comincia a raccontarmi di suo figlio che è venuto a vivere in Italia per sposarsi, lei era appena diventata nonna e per l'occasione era venuta a stare dal figlio per qualche mese. "Sai cosa mi piace dell'Italia? " mi chiede e mi fa cenno verso una vecchia casa diroccata con un edera rampicante che ricopre praticamente tre quarti dell'edificio.

"Da noi è difficile da vedere, case antiche, rampicanti. C'è la tentenza a sostituire ogni cosa. Peccato perchè quella casa è così bella da guardare, ogni tanto vengo qui e la osservo."
Osserviamo in silenzio la casa quasi contemplandola, io le sorrido con timore, non so bene cosa dirle, cosa risponderle mi sento quasi in imbarazzo.

"E' proprio dura essere donne in questo mondo." si gira verso di me con un sorriso complice come per dire - tu mi puoi capire bene - e accosta ancora di più l'ombrello facendomi ombra.


Si, è dura essere donne come è dura essere 17enni sprovvedute, è dura essere un edera in Giappone.

Ci sono degli incontri che ti dimentichi per molto tempo e poi, quando è necessario, ti tornano alla mente e sembra quasi che facciano parte di sogni e fantasie e ti chiedi se è possibile siano successi veramente.